Nada


La stessa

Questa giovane scrittrice, nata in Ucraina e naturalizzata brasiliana, di una bellezza e un'eleganza che ricorda le dive di Hollywood, regala al mondo un'opera prima di imprevedibile modernismo che gira intorno ad un incessante, quanto biografico, viaggio interiore che apparentemente non ci conduce da nessuna parte, ma che in realtà giunge proprio lì, al cuore selvaggio della vita.
Ed è da questo luogo primitivo dove le emozioni, le sensazioni e le percezioni si amplificano e sembrano sfuggire all'esprimibile che Clarice crea una lingua nuova, affilata e precisa come una lama di rasoio e allo stesso tempo trasfigurata da una personalità che non si arrende ai canoni letterari che l'hanno preceduta, ma che opera un'incessante ricerca della parola in uno slancio quasi mistico verso la purezza e la perfezione espressiva.
Nello stile della Lispector non troviamo nessuna regola riconoscibile, nulla di preformato a cui aderire o in cui riconoscersi. La sua scrittura personalissima si snocciola libera e audace, la prima e la terza persona si alternano e si susseguono, specchio l'una di un'introspezione dolorosa e fredda e l'altra di una voce narrante al di sopra delle parti e dei personaggi, dei cui destini, però, sembra rammaricarsi.
Ogni espediente impiegato vale come un tentativo, per sua natura illusorio e frustrato, di afferrare qualcosa in divenire e quindi per sua natura ancora indefinito.
La trama del romanzo in sé per sé potrebbe risultare quasi banale, addirittura volgare, ma in realtà è solo una serva, funzionale a uno scopo: l’analisi della ricerca interiore, la descrizione fredda e caustica del delirio della vita. Joana, la protagonista, potrebbe essere qualunque cosa, una pazza, un'isterica, una lunatica, un'instabile, la persona più spregevole della terra, ma non è niente di tutto ciò. È, piuttosto, una donna sola in una realtà che non la considera come tale, in cui non si riconosce e nella quale non può costruirsi un'identità, ma solo un’interiorità esasperata. In lei vediamo il costante tentativo di metabolizzare il dolore senza la necessità di spurgarlo, un'assimilazione del reale senza filtri o difese e la capacità di assorbirne tutto il male con una naturalezza che lascia spiazzati, come se non ci fosse scampo. Il suo personaggio è la raffigurazione plastica di una solitudine cementata nell’incapacità di esprimere i sentimenti e le sensazioni e l'autoanalisi che via via viene svelata, finisce per contenere il seme stesso della misantropia.
Si può scrivere così bene il proprio primo libro da far pensare più a un miracolo che a un debutto, ma alla fine quello che quest'opera incredibile sembra suggerire è che non ci sia nulla di più disumano della vita umana, dal momento in cui tentiamo di farne l'oggetto di un racconto.

Di natura autobiografica ma altrettanto ambigua, i racconti nascono da una commistione di realtà e irrealtà, divagano nel fantastico, nel surreale, mantenendo un carattere lirico ed evocativo. Parte dall’infanzia la Ortese, e ne esprime tutto il fascino e la sofferenza. E’ attraverso le conquiste, gli innamoramenti e la diffidenza per il mondo adulto, l’universo familiare e la città di Napoli, che si fanno strada le dinamiche di autodeterminazione e definizione della protagonista, le tappe di una crescita e condizione solipsistica fortemente sentimentale. Un senso di angoscia che accompagna il processo di differenziazione, l’esperienza estetica, passando da una dimensione prettamente reale e familiare in cui i nomi mantengono le vere identità dei fratelli e i luoghi aderiscono ai ricordi infantili della protagonista Anna, a onirici, in cui i ribaltamenti spazio-temporali provocano e confondono, si spersonalizzano. Metafore, ossimori e allegorie governano manifestatamente alcuni di questi racconti quasi a volerne espressamente sottolineare l’artificiosità.
Ma, nonostante tutto, a quella sofferenza, che tanto la connota, Anna Maria non avrebbe mai rinunciato perché «scrivere è cercare la calma, e qualche volta trovarla. È tornare a casa. Lo stesso che leggere. Chi scrive o legge realmente, cioè solo per sé, rientra a casa, sta bene. Chi non scrive o non legge mai, o solo su comando - per ragioni pratiche - è sempre fuori casa, anche se ne ha molte. È un povero, e rende la vita più povera».