Fra i pochi scrittori italiani ad aver vinto sia il Premio Strega che il Campiello, Giovanni Arpino rappresenta sotto diversi aspetti un unicum nel panorama letterario italiano.
Autore tra i più letti ed elogiati negli anni Sessanta e Settanta, alla fine dello scorso millennio le opere di Arpino sono finite nel dimenticatoio, fino alla recente riscoperta e ristampa dei suoi testi da parte di numerose case editrici, culminata con la pubblicazione di un Meridiano Mondadori delle sue opere scelte, curata dal critico Rolando Damiani.
Scrittore realista e sognante allo stesso tempo, il percorso narrativo e letterario di Arpino si caratterizza proprio per l’impossibilità – o meglio, la non volontà da parte sua – di collocarsi all’interno di una specifica corrente letteraria. Questo, probabilmente, ne segnò anche le sorti durante gli anni Novanta, quando la sua produzione così atipica non venne tenuta in considerazione dai critici letterari italiani, concentrati com’erano sul cercare e lodare tutto ciò che poteva essere facilmente etichettato come neorealista.
Al pari dei neorealisti, Arpino è un attento osservatore della realtà, dei cambiamenti e delle difficoltà che l’Italia e gli italiani stanno attraversando in quegli anni; non inventa quasi mai nulla, ma trae personaggi, trame, ambientazioni e linguaggio dalla quotidianità attorno a lui e dal suo vissuto.
A differenza del neorealismo, però, manca in Arpino ogni forma di paternalismo, di giudizio morale o di volontà di impartire insegnamenti attraverso le vicende narrate: lui si pone come semplice testimone – un “narratore di storie”, si definisce – che non esprime mai posizioni nette, manichee, lasciando scorrere la vicenda attraverso i dialoghi, i pensieri e le azioni dei suoi protagonisti.
Protagonisti che hanno spesso l’aria di essere degli inetti sveviani, o comunque degli uomini semplici, limitati da loro stessi e da un mondo in cui non si sanno collocare, che si ritrovano all’improvviso – e a volte contro la loro volontà – alle prese con qualcosa di più grande di loro.
Un qualcosa che potrebbe essere occasione di riscatto, ma che si tramuta solo in un’ulteriore conferma e presa di coscienza del loro non sapere e non volere adattarsi alla realtà; del loro preferire vivere ingannandosi di essere capaci di affrontare la vita, piuttosto che tentare un cambiamento.
A fare da sfondo, in quasi tutti i romanzi c’è “la sua” Torino, sempre uguale e sempre diversa, attraversata in lungo e in largo, di giorno e di notte, a piedi, in tram o in treno, dalle moderne vie del centro con i suoi caffè e le sue vetrine, fino alle colline e alle periferie più conservatrici, misteriose, pericolose, picaresche e abitate da personaggi a tratti surreali e favolosi, ma non per questo meno veri, anzi.
Che sia Torino, Genova, Napoli o Milano, a emergere è ogni volta lo scontro generazionale tra giovani e adulti, padri e figli che, nonostante siano separati solo da una manciata di decenni, non trovano il modo di comprendersi e dialogare, per quanto muti e progredisca velocemente l’Italia in quegli anni.Il libro d’esordio di Arpino è Sei stato felice, Giovanni, romanzo autobiografico pubblicato nel 1952 per Einaudi, nella collana I Gettoni, fortemente sostenuto da Vittorini – che, in quest’occasione, limita anche i pesanti interventi di editing con cui era solito martoriare i testi – nonostante le remore, invece, di Calvino.
Il successo, però, arriva solo nel 1959 con il romanzo breve La suora giovane, in cui sotto forma di diario viene raccontata l’infatuazione di un ragioniere quarantenne per una novizia diciannovenne prossima ai voti.
L’amore con Einaudi, però, non scatta mai del tutto. Arpino non riesce ad allinearsi con la forte ideologia spesso lontana dalla realtà che caratterizza la casa editrice in quegli anni, né si rispecchia nella figura tipica dell’intellettuale einaudiano.
Nel 1960 passa, così, a pubblicare per Mondadori, editore con il quale avviene la sua consacrazione letteraria.
Le successive due opere, infatti, Un delitto d’onore e Una nuvola d’ira, sono un trionfo di pubblico, sancito definitivamente dalla vittoria nel 1964 del Premio Strega con il romanzo partigiano L’ombra delle colline.
Proprio all’apice del successo, Arpino decide di sperimentare nuovi campi, divenendo, anche, giornalista, prima cronista sportivo per Il Guerin Sportivo e La stampa, poi passando alla cronaca per Il Giornale di Indro Montanelli.
Anche come giornalista sportivo, Arpino mostra tutta la sua abilità di narratore, riuscendo con i suoi articoli a liberare lo sport, in primo luogo il calcio, dalla condanna di cultura di serie B.
È del 1977 il romanzo autobiografico Azzurro tenebra, in cui Arpino racconta l’esperienza fallimentare della nazionale italiana di calcio ai mondiali disputati in Germania Ovest nel 1974.
Ad ogni modo, l’attività di romanziere non si interrompe. Dopo aver pubblicato ancora due romanzi per Mondadori – L’ombra delle colline e Un’anima persa – a seguito di diversi scontri con la casa editrice milanese, Arpino comincia un vero e proprio vagabondaggio editoriale, passando prima a scrivere per Rizzoli, con la quale debutta pubblicando il capolavoro Il buio e il miele – dal quale sono stati tratti i film Profumo di donna con Vittorio Gassman e il remake americano con Al Pacino Scent of a woman – poi anche per Garzanti, Rusconi e nuovamente Einaudi.
Un periodo durante il quale l'autore contamina sempre più il suo realismo con elementi surreali, tanto che si potrebbe arrivare a parlare di atmosfere da realismo magico, in particolar modo per i libri Randagio è l'eroe e Domingo il favoloso.
È, comunque, con Rizzoli che nel 1980 Arpino vince il Premio Campiello con il romanzo Il fratello italiano, che racconta la storia di Carlo Botero, maestro in pensione che si sente capito solo dal suo gatto Stalin, e il suo esatto opposto per vissuto e mentalità, Raffaele Cardoso, sessantenne dal passato oscuro.
I due si ritrovano a dover affrontare insieme un’impresa non alla loro portata, che li porta a combinare i drammi delle rispettive esistenze e a rapportarsi con un mondo – quello che sta vivendo il boom economico degli anni ’80 – con cui non riescono più a comunicare.
Autore di sedici romanzi, oltre duecento racconti, poesie, opere teatrali, libri per ragazzi, saggi pedagogici, ma anche giornalista sportivo e non solo, tutta questa volontà di sperimentare e fuggire alle definizioni la si ritrova anche nel suo linguaggio e nella continua ricerca semantica e lessicale, caratterizzata da una minuziosa aggettivazione e dal ricorso frequente a metafore, similitudini e simboli esemplificativi che rendono i suoi testi quasi intraducibili in un’altra lingua, se non a costo di smarrire questa minuziosità.
Giovanni Arpino è, insomma, uno degli scrittori più prolifici, eclettici e “anomali” della letteratura italiana del secondo Novecento, che ha votato la sua esistenza alla scrittura e al racconto di persone e fatti cercati nella realtà di tutti i giorni, quella più vera e meno idilliaca.
Conoscerlo, quindi, è fondamentale per comprendere appieno un periodo storico e culturale così importante per il nostro Paese.