Che oggi la scuola sia in grave difficoltà è un’evidenza
sotto gli occhi di tutti. Eppure mai come adesso
ci si è preoccupati tanto dell’istruzione e si sono
spese tante risorse e riposte tante aspettative in
essa. Si è insomma di fronte a quello che Frank
Furedi chiama «il paradosso dell’istruzione»: mentre
investiamo sempre di più nell’insegnamento, e sempre
di più vorremmo ricavarne, le nostre scuole chiedono
sempre meno agli studenti. La maggior parte
delle energie investite nell’istruzione viene così
sperperata e il lavoro di insegnanti, genitori, pedagogisti,
politici e studenti diventa «fatica sprecata».
Da intellettuale lucido e appassionato qual è, ma
anche da genitore interessato e preoccupato, Furedi
non si ferma a prendere atto della situazione, ma vi
scava dentro con una profondità e una libertà del
tutto originali, nell’intento di portare alla luce il vero
nocciolo del problema e di assegnare le responsabilità
di una situazione che rischia di privare i giovani
del loro futuro.
Basse aspettative nei confronti dei ragazzi, la tendenza a infantilizzarli attraverso una forte psicologizzazione del rapporto educativo e un infinito maternage, la ricerca ossessiva delle loro motivazioni, il declinare dell’autorità degli adulti producono l’esatto contrario di ciò a cui l’istruzione dovrebbe mirare, cioè la formazione di persone autonome, critiche, capaci di una propria visione del mondo. Se a tutto ciò si aggiunge una concezione strumentale della scuola come funzionale all’economia e al lavoro, si ha una misura di quanto si stia immiserendo il lavoro educativo in generale e quello scolastico in special modo, fino al loro svuotamento.
La tesi controcorrente di Furedi è che l’istruzione è importante per se stessa, per i contenuti che veicola. A chi afferma che oggi ai ragazzi servono non tanto la storia o la letteratura o la matematica, quanto le abilità specifiche per adattarsi e interloquire con la società e il mondo del lavoro o, al limite, una generica capacità di ‘imparare a imparare’, egli risponde che apprendere le conoscenze e le scoperte frutto di esperienze fatte da altri, in luoghi anche remoti e in situazioni storiche diverse da quelle cui sono abituati, permette ai giovani di sviluppare le imprescindibili capacità di pensare, conoscere, immaginare, osservare, giudicare, interrogare. Un siffatto lascito culturale dà agli studenti una comprensione del passato e una conoscenza con cui affrontare, teoricamente e praticamente, i problemi del presente e del futuro.
Rivelano così tutta la loro pregnanza le parole di Hannah Arendt che Furedi ha voluto porre all’inizio di questo suo lavoro: «L’educazione è il momento che decide se noi amiamo abbastanza il mondo da assumercene la responsabilità e salvarlo così dalla rovina, che è inevitabile senza il rinnovamento, senza l’arrivo di esseri nuovi, di giovani. Nell’educazione si decide anche se noi amiamo tanto i nostri figli da non estrometterli dal nostro mondo lasciandoli in balìa di se stessi, tanto da non strappargli di mano la loro occasione d’intraprendere qualcosa di nuovo, qualcosa d’imprevedibile per noi; e prepararli invece al compito di rinnovare un mondo che sarà comune a tutti».
Basse aspettative nei confronti dei ragazzi, la tendenza a infantilizzarli attraverso una forte psicologizzazione del rapporto educativo e un infinito maternage, la ricerca ossessiva delle loro motivazioni, il declinare dell’autorità degli adulti producono l’esatto contrario di ciò a cui l’istruzione dovrebbe mirare, cioè la formazione di persone autonome, critiche, capaci di una propria visione del mondo. Se a tutto ciò si aggiunge una concezione strumentale della scuola come funzionale all’economia e al lavoro, si ha una misura di quanto si stia immiserendo il lavoro educativo in generale e quello scolastico in special modo, fino al loro svuotamento.
La tesi controcorrente di Furedi è che l’istruzione è importante per se stessa, per i contenuti che veicola. A chi afferma che oggi ai ragazzi servono non tanto la storia o la letteratura o la matematica, quanto le abilità specifiche per adattarsi e interloquire con la società e il mondo del lavoro o, al limite, una generica capacità di ‘imparare a imparare’, egli risponde che apprendere le conoscenze e le scoperte frutto di esperienze fatte da altri, in luoghi anche remoti e in situazioni storiche diverse da quelle cui sono abituati, permette ai giovani di sviluppare le imprescindibili capacità di pensare, conoscere, immaginare, osservare, giudicare, interrogare. Un siffatto lascito culturale dà agli studenti una comprensione del passato e una conoscenza con cui affrontare, teoricamente e praticamente, i problemi del presente e del futuro.
Rivelano così tutta la loro pregnanza le parole di Hannah Arendt che Furedi ha voluto porre all’inizio di questo suo lavoro: «L’educazione è il momento che decide se noi amiamo abbastanza il mondo da assumercene la responsabilità e salvarlo così dalla rovina, che è inevitabile senza il rinnovamento, senza l’arrivo di esseri nuovi, di giovani. Nell’educazione si decide anche se noi amiamo tanto i nostri figli da non estrometterli dal nostro mondo lasciandoli in balìa di se stessi, tanto da non strappargli di mano la loro occasione d’intraprendere qualcosa di nuovo, qualcosa d’imprevedibile per noi; e prepararli invece al compito di rinnovare un mondo che sarà comune a tutti».
Biografia dell'autore
Frank Furedi, sociologo, ha insegnato
all’Università del Kent, studiando i nodi problematici
della vita culturale contemporanea, come la paura
nei confronti di un futuro incerto, la percezione del
rischio nell’era post 11 settembre, la vulnerabilità
nell’incertezza dei ruoli, soprattutto educativi, la
nuova fondazione del concetto di autorità morale
nelle società occidentali della postmodernità.
Spesso presente nei dibattiti culturali e televisivi
inglesi, ha pubblicato diversi volumi, tra i quali sono
stati tradotti in italiano, oltre a questo, Il nuovo
conformismo. Troppa psicologia nella vita quotidiana
(2005) e Che fine hanno fatto gli intellettuali?
I filistei del XXI secolo (2007).